La mattina mi butto fuori di casa e cammino.

Appena inizia il mormorio nella mia testa, quello inutile, che non porta a niente, al quale si accompagna il buco nello stomaco, la solitudine, la sensazione che il mondo si sia dimenticato di me, subito mi infilo a caso le prime cose a portata di mano ed esco. L’aria in faccia mi dà sollievo e tranquillizza. Solitamente nei pochi passi successivi, che mi portano alla fine dei mio vicolo, all’incrocio con la strada principale, dove devo decidere se attraversarla o no, mi è chiara la direzione da prendere: verso l’autobus, verso il parco oppure verso il centro città. E solo allora iniziano a delinearsi le possibilità e le opzioni. E solo allora torno indietro, rientro in casa e in velocità riempio lo zaino dell’indispensabile per ogni evenienza: tablet, tastiera, mouse, costume, spazzolino, documenti.

Come se ogni giorno partissi per un cammino di Santiago o per un viaggio solo andata. Esco e inizio a camminare. Lascio che gradualmente le mie gambe prendano il sopravvento e il controllo della situazione. Preferisco così, che siano loro a portarmi. Mi fido del mio corpo. E mi affido ad esso ed alla sua intelligenza totalmente. Il mio corpo, di sicuro, la parte più intelligente di me. Una mappa di cicatrici, dolore, traumi. Un navigatore che non sbaglia mai, a condizione che lo si ascolti con molta attenzione. E se è vero che il dolore può portare a una maggiore consapevolezza di sicuro il mio corpo la sa lunga. Un corpo intelligente, che a differenza della mente, conosce i limiti. La mente no, non li conosce, procede ad oltranza, pericolosamente, va domata con rigore. Va sottomessa. O come dicono alcuni: armonizzata.

E inizia il viaggio, che si delinea istante per istante, ascoltando l’istinto. Potrebbe portarmi al bar e alla lettura dei giornali e poi alla fermata dell’autobus o alla stazione dei treni e in qualche città. Oppure potrebbe portarmi a zonzo, seduta in un autobus, guardando correre la vita e la città oltre il finestrino. Solo in movimento, o tra la gente, tutto riacquista senso. Ritrovo la mia dimensione di osservatrice e quella pace, la stessa che riscopro nella natura. La contemplazione della natura e dell’umanità risveglia l’ispirazione e la creatività che poi, come un fiume in piena, devo liberare. Nella scrittura solitamente. Cui segue, immediatamente, il desiderio di raccontare e condividere. Solo questo, e poco altro, dà senso alle mie giornate. La sintesi creativa. L’ispirazione preme, produce nuovo pensiero, risultato della dialettica tra l’ambiente e l’esperienza. Una ispirazione che è fuoco, brucia in fretta e va cavalcata subito appena arriva, come l’onda per il surfista. E allora capita che, esattamente lì dove sono, devo iniziare a scrivere, questione di vita o di morte. Seduta su un marciapiede, oppure appoggiata al frigorifero dei surgelati di un supermercato, oppure seduta su un autobus di linea. Va fatto subito, prima che venga riassorbita dal flusso, perdendo senso e urgenza. Il mondo è complesso, lo ascolto con tutta me stessa, e mi tira in tutte le direzioni. Solo in questo faticosissimo flusso, riesco a stare. Una specie di maledizione. Una faticosissima maledizione, che mi dà tregua solo quando la stanchezza è estrema, le energie esaurite, il riposo necessario. E allora stare tra quattro mura di solitudine diventa sopportabile. Il mattino successivo, il nido si trasforma in gabbia, e si ricomincia.

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